INTRODUZIONE ALL’ARTICOLO
di Valentina Adorno
Alcune essenziali e quindi non esaustive riflessioni per introdurci al tema della genitorialità attraverso un articolo di Massimo Recalcati, psicoanalista di matrice lacaniana1.
1Jacques Lacan, psichiatra, psicoanalista, filosofo francese (1901-1981), è fondatore di un approccio psicoanalitico caratterizzato dalla rivisitazione e reimpostazione di numerosi insegnamenti della dottrina freudiana di cui fu, al tempo stesso, profondo ed acuto studioso.
Dare la vita ad un figlio, nella sua grandezza generativa, aprendo all’esperienza costitutiva ed irreversibile della maternità e della paternità, implica essere detentrici e detentori di una vera e propria “eredità” intesa come il patrimonio di tipo culturale, nei suoi diversi aspetti e risvolti, come modi di pensare, atteggiamenti affettivo-emotivi, condotte, permessi, divieti ed a volte anche rifiuti, da cui i figli saranno condizionati rispetto a “chi” ed a “come” essi sono e saranno nel mondo. Un retaggio di capitale importanza, qualcosa di intimamente prezioso ed insostituibile e quindi fonte di grande responsabilità da parte dei genitori. D’altra parte i figli possono diventare depositari di tanto bene quanto di fardelli indesiderati, a volte veri e propri impedimenti ad una loro sana crescita.
Il ruolo del genitore, così centrale e determinante, rimanendo una pietra miliare nella storia di ogni individuo, richiede, pertanto, di porre un’attenzione speciale alla relazione di reciprocità genitori/figli.
Per i genitori, un principio basilare di questa piattaforma relazionale è riassumibile, in modo pregnante, nell’essere in prima persona e permettere ai propri figli di essere protagonisti della propria storia.
Un esempio rappresentativo di quanto appena auspicato è, pur nella sua drammaticità, la narrazione della scrittrice e giornalista cilena Isabel Allende, che, in un periodo tragico della propria esperienza di madre, scrive un libro dedicandolo alla figlia Paula, ammalatasi, improvvisamente, a ventotto anni, di porfiria, una malattia gravissima, che la trascina in un coma durato circa un anno e poi alla morte. Grazie al potere magico che creativamente sa trarre dalla scrittura, l’Autrice nella sua veste di madre cerca di “distrarre” la morte, di trovare un senso a cotanta tragedia, evocando i membri della sua esuberante ed affettivamente traboccante famiglia, perché circondino con la loro ricchezza umana, la figlia in fin di vita ed aiutino quest’ultima a superare, “senza perdersi”, il confine della vita.
“Seduta al tuo fianco a osservare su uno schermo le linee luminose che indicano i battiti del tuo cuore, tento di comunicare con te i metodi magici di mia nonna. Se fosse qui, lei potrebbe recapitarti i miei messaggi e aiutarmi a tenerti legata a questo mondo. Hai intrapreso uno strano viaggio tra le dune dell’incoscienza. Perché tante parole se non mi puoi sentire? Perché queste pagine che forse non leggerai mai? La mia vita si fa nel narrarla e la mia memoria si fissa con la scrittura; ciò che non riverso in parole sulla carta lo cancella il tempo”…. “La scrittura è una lunga introspezione, è un viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una lunga meditazione. Scrivo a tentoni nel silenzio e nel cammino scopro particelle di verità, piccoli cristalli che stanno nel palmo di una mano e giustificano il mio passaggio per questo mondo” ( Isabel Allende, Paula, Feltrinelli, 2010 pp-15-16).
Questo il modo di rimanere protagonista della propria storia da parte della scrittrice mentre accetta struggentemente, che abbia corso e fine la vita della figlia Paula da cui si congeda, nell’estremo saluto, con le seguenti parole: “Adiòs, Paula, mujer (donna).
Bienvenida, Paula, espìritu” (ibidem, p. 326).
Saper amare i nostri figli incondizionatamente – piuttosto che a condizione che siano come noi li abbiamo immaginati e desiderati – in base alla nostra capacità di accettarci per come siamo, invece di volere che loro siano quello che noi non siamo stati e/o avremmo voluto essere, amarli sapendoli guidare, ma, al tempo stesso, lasciare che essi siano se stessi fino in fondo, anche quando fanno scelte di vita che non ci piacciono ed a volte proprio dolorose per noi, contribuisce a plasmare in loro una forma di amore a cui essi possono appellarsi anche nei momenti più incerti e difficili della loro crescita e della loro intera vita.
Sempre nell’economia della reciprocità, inoltre, proprio i nostri figli forniscono a noi genitori – se siamo “sufficientemente”, ma anche “non troppo” spaventati perché questo avvenga – degli insegnamenti che contribuiscono ad emanciparci, seppur attraversando, per nostre necessità evolutive, aree di sofferenza. Essi stessi ci rendono depositari di un modo, il loro, di stare nel mondo e di interpretarlo.
Sappiamo accogliere, come genitori, questa sfida personale, storica, transgenerazionale?
La scelta prospettica proposta da Massimo Recalcati nell’articolo che segue, offre materiale di riflessione con cui assegnare, nella composita era contemporanea, tanta autorevolezza ed onestà di pensiero nel sostenere il delicato e fondamentale ruolo di genitore.
1 Jacques Lacan, psichiatra, psicoanalista, filosofo francese (1901-1981), è fondatore di un approccio psicoanalitico caratterizzato dalla rivisitazione e reimpostazione di numerosi insegnamenti della dottrina freudiana di cui fu, al tempo stesso, profondo ed acuto studioso.
A scuola di genitori
il mestiere più difficile
di Massimo Recalcati (La Repubblica, 29 gennaio 2016)
Affermare che il mestiere del genitore è impossibile significa che non esistono manuali in grado di spiegare come si fa ad essere un genitore sufficientemente buono” (Massimo Recalcati, La Repubblica, 29 gennaio 2016)
Freud dava due notizie ai genitori. La prima, piuttosto disarmante, è che si tratta di un mestiere impossibile. La seconda, che forse ci può rincuorare, è che i migliori tra loro sono quelli consapevoli di questa impossibilità.
Ma perché il mestiere del genitore sarebbe impossibile? Perché, come mostra l’esperienza, non si può esercitare questa funzione se non in modo sempre, più o meno, insufficiente, incerto. Nessuno può, infatti, possedere la risposta infallibile su qual è il senso della vita, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Tutti noi ci barcameniamo alla meno peggio navigando a vista, rinunciando alla favola della mano sicura che guida la vita dei figli. Questo spiega anche perché i peggiori genitori sono invece quelli che pensano di essere dei buoni genitori, o, peggio, di incarnarne il loro modello ideale. La psicoanalisi raccoglie sovente i cocci provocati da questo tipo di genitori eccessivamente identificati alla loro funzione educativa. Accadde, tra gli altri al povero Schreber, presidente della Corte di Appello di Lipsia, paranoico delirante, che dovette sopportare da bambino il sadismo folle di un padre inventore di apparecchi educativi finalizzati a correggere, la scarsa forza di volontà dei suoi figli.
Affermare che il mestiere del genitore è impossibile significa che non esistono manuali in grado di spiegare come si fa ad essere un genitore sufficientemente buono. La credenza al limite della superstizione del nostro tempo alimenta invece la fantasia che esistano ricette predefinite e valide per tutti capaci di rendere le cure genitoriali efficaci. Manuali che spiegano come regolare il sonno del proprio bambino, il suo appetito, le sue facoltà cognitive, il suo temperamento, il suo comportamento in generale. Manuali che spiegano come calibrare nella giusta misura gratificazioni e frustrazioni, premi e punizioni, affettività e normatività. Non casualmente questo proliferare di un sapere educativo pret-à-porter fiorisce proprio nel momento in cui si assiste al tramonto dell’autorità simbolica in tutte le sue declinazioni, prima fra tutte quelle del pater familias. Se il tempo del padre-padrone si è esaurito, bisogna affidarsi a manuali dall’aspetto più democratico e ammantati da una parvenza di scientificità per orientare con sicurezza la vita dei nostri figli. Ecco allora apparire un esercito di esperti specializzati sulla funzione genitoriale che spiegano – di fronte al vuoto lasciato dal declino (benedetto) dell’ideologia patriarcale – in che cosa consisterebbe la “giusta” educazione. Una pletora di istruttori di genitori (solitamente, a loro volta, genitori protagonisti di fallimenti) si prodiga nell’elencare le regole che dovrebbero garantire un successo educativo.
Ma è questa la via per provare a reinventare un modello educativo alternativo a quello che abbiamo ereditato dall’ideologia patriarcale e ai fallimenti di quello libertario post ’68? I migliori genitori, spiega Freud, sono quelli consapevoli della loro insufficienza, ovvero quelli che rifuggono da un sapere predefinito, standard. Quelli che sanno che la sola cosa che conta nel rapporto coi figli è aver fatto loro segno dell’amore, ovvero riconoscerli nella loro assoluta particolarità. Senza questo riconoscimento la vita si ammala, si depotenzia, si disperde. Quello che conta nel processo di umanizzazione della vita è avere fede nel desiderio dei propri figli, donare loro la possibilità della sconfitta e del fallimento, ma anche quella di rialzarsi, di ripartire contando sul sostegno dei loro genitori. Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se i genitori hanno delle attese sui figli i figli avranno dei destini e, solitamente, assai infelici. Nessuna regola comportamentale può compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la particolarità reale del figlio al di là di ogni sua rappresentazione ideale.